Cosa c'è dietro la battaglia tra ambientalisti e abitanti delle Faer Øer

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2015-08-28

I giornali italiani hanno raccontato di una terribile mattanza di innocenti delfini, ma questa è solo la narrativa ambientalista, cosa è davvero il grindadráp e perché continua ancora oggi? Ne parliamo con Fabrizio Santoro

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Ci sono argomenti che è difficile affrontare se non si hanno le competenze e le conoscenze adatte, soprattutto quelli in cui siamo portati – per sensibilità personale e culturale – ad essere più emotivamente coinvolti. Sembra incredibile ma è così, a volte farsi trascinare dall’emozione non è il modo migliore per affrontare un problema. Prendiamo ad esempio un caso abbastanza recente, quello dell’attivista italiana della Sea Sheperd Conservation Society arrestata nelle isole Faer Øer mentre tentava di impedire con azioni di disturbo la annuale caccia ai globicefali, o balene pilota. Delle Faer Øer la maggior parte degli italiani sa solo due cose: che gli isolani hanno abitudine di “massacrare” i delfini e che la Nazionale di calcio dell’arcipelago è molto simpatica e ha disputato alcune partite contro quella italiana.
fabrizio santoro sea sheperd globicefali
LA CACCIA AI GLOBICEFALI COME PARTE DELLA CULTURA FEROESE
Fino a quando non ho letto il post su Facebook di Fabrizio Santoro nemmeno io sapevo molto sulla caccia ai globicefali delle isole Faer Øer. Fabrizio è un ragazzo italiano di ventiquattro anni, per lavoro fa il macchinista ferroviario ma ha una grande passione, quella per quel remoto pugno di isole a nord della Scozia. Passione che lo ha portato a visitarle diverse volte negli ultimi anni e dove ha conosciuto molti isolani che gli hanno parlato della caccia alle balene pilota (che in realtà sono delfini). Fabrizio ha anche aperto un blog – uno dei pochi in italiano – che spiega (come fa nel post) alcuni fatti riguardanti questa pratica degli isolani feroesi. Qualche giorno fa Fabrizio si trovava a Milano e gli è capitato di imbattersi nella manifestazione di protesta organizzata dagli attivisti di Sea Sheperd di fronte al consolato del Regno di Danimarca. Come spesso accade in queste occasioni gli animi si sono scaldati parecchio quando Fabrizio ha deciso di contestare i dati riportati su alcuni volantini distribuiti dagli animalisti. Ne è nato un alterco dal quale molto probabilmente ciascuno è uscito confermato nelle proprie opinioni. Il che non rende di sicuro un buon servizio ai fatti e per averne un’idea è sufficiente leggere i commenti a questo articolo del Fatto QuotidianoLa caccia si chiama Grindadráp e a differenza di altre forme di caccia ai cetacei (del passato ma anche dei tempi recenti) non è svolta su scala industriale e non ha fini commerciali. Il grindadráp, che si svolge durante i mesi estivi, è un’attività i cui proventi sono destinati al consumo interno, ovvero quello delle famiglie dei partecipanti alla pesca. Non è nemmeno una mattanza indiscriminata, ma si svolge secondo regole ben precise in luoghi (le spiagge dove avvengono le uccisioni) stabilite di volta in volta da supervisori eletti all’interno della comunità: i grindformenn. La suddivisione dei proventi della caccia è compito di una sorta di autorità locale, uno “sceriffo”, il cui nome è sýslumaður. Come racconta nel suo resoconto etnografico Rob van Ginkel del Dipartimento di Sociologia and Antropologia dell’Università di Amsterdam la carne viene distribuita tra gli abitanti secondo una pratica che risale a diverse centinaia di anni fa:

The whales are cut up and the meat and blubber are distributed, free of charge, to the region’s inhabitants with priority being given to those who actually participated in the hunt. The person who first spotted the whales is entitled to choose the largest whale or its equivalent in smaller whales; the whale foremen are each guaranteed one per cent of the meat. The grindadráp is a communal activity rather than a commercial venture, going back to the early days of Norse settlement in the Viking age (800-900).

Naturalmente, come tutte le uccisioni di animali, non è uno spettacolo piacevole. I Feroesi sono quindi descritti variamente come barbari, sadici, crudeli e inseriti all’interno di una narrazione che mira a deumanizzare i cacciatori e a umanizzare i cetacei (che di converso hanno vincoli famigliari, sono intelligenti, socievoli). Non è rilevante che secondo tutti i report i globicefali non siano in via d’estinzione: si stima che il loro numero sia poco meno del milione di esemplari, circa 128.000 nella sola area circostante l’arcipelago dei quali i feroesi ne catturano circa 800-900 l’anno (intorno allo 0,1% della popolazione totale). Questo a fronte di un tasso riproduttivo pari al 3% (ovvero nascono circa tremila esemplari l’anno). Insomma la specie non è a rischio, le quantità di mercurio sono le stesse di altri animali marini delle medesime dimensioni e anche se non è corretto definirla “pesca di sussistenza” quei 10 kg di carne in più su cui le famiglie feroesi possono contare grazie alla grindadráp sicuramente aiutano la popolazione a non abbandonare le isole per cercare una vita migliore altrove (sull’ecosostenibilità della caccia se ne parla anche qui). Ma la caccia ai globicefali non è importante solo per la sopravvivenza ma anche per la creazione dell’identità della popolazione feroese. Ed è su questo punto che gli ambientalisti commettono l’errore più grande, quello di imporre le proprie categorie culturali agli altri (e abbiamo visto come il trucco per farlo sia negare l’umanità dell’altro).


Fabrizio ci racconta che durante la crisi degli Anni Novanta sono state molte le famiglie che sono riuscite a sopravvivere grazie alla carne di globicefalo e a riprova che non si tratta di uno sport o di un “Festival della mattanza” ma un’attività sociale con un ruolo importante nell’economia locale riporta questo aneddoto raccontatogli da un ragazzo durante uno dei suoi viaggi nell’arcipelago:

Qualche anno fa, nel suo villaggio, ci fu una grindadráp in cui vennero uccisi un centinaio di questi globicefali. Erano sufficienti per coprire l’esigenza della piccola isola per più di un anno. Il giorno seguente ne furono avvistate delle altre. Dopo un consulto con il responsabile della grindadráp, furono condotte a riva e uccise ugualmente, nonostante non ci fosse stata necessita di carne. Che fine fece? Venne regalata tutta ad un altro villaggio, che non ne vedeva da quattro o cinque anni.

UN NEOCOLONIALISMO IDEOLOGICO DEGLI AMBIENTALISTI?
Alla base del discorso eco-politico intorno alla caccia ai globicefali non ci sono solo questioni ambientali (senza dimenticare che l’inquinamento dell’ecosistema marino è uno dei fattori che mettono a rischio la caccia) ma una battaglia politica sul valore antropologico delle tradizioni culturali (proprie e altrui) e del loro contributo alla definizione dell’identità culturale di una comunità. Badate bene, non stiamo parlando di “riti di passaggio” perché – anche se a volte viene definita tale – la caccia ai globicefali non ha queste caratteristiche. I critici sostengono che il gridadráp abbia perso le sue caratteristiche “tradizionali” perché si è evoluto e fa utilizzo di tecnologie moderne. Il che sarebbe come dire che il Natale non è più tradizionale perché si usano gli alberi di plastica. La tradizioni culturali non sono qualcosa di statico, anche esse si evolvono e come scrive van Ginkel: «non sono gli strumenti ad essere fondamentali ma gli obiettivi perseguiti all’interno della tradizione». La pretesa di autenticità come di una perfetta aderenza ad una norma arcaica è una necessità che si vorrebbe imporre dall’esterno. Certo, è innegabile che la battaglia sulla “tradizionalità” della caccia e venga condotta in modo strategico anche dagli isolani per affermare la propria identità, questo perché:

any tradition entails mixing and matching, forgetting and remembering, adaptation and rejection, sustaining and transforming, overexposure and underexposure, articulation and disarticulation, continuity and change. It is ‘not a wholesale return to past ways, but a practical selection and critical reweaving of roots’

La cultura e la tradizione non esistono come categorie a sé stanti e immutabili; sono messe in atto dalle comunità, dagli individui, che continuamente le modellano e le distorcono per perseguire i fini che si sono preposti. Se gli ambientalisti volessero difendere le balene pilota probabilmente dovrebbero combattere contro quelle attività umane che ne mettono davvero a repentaglio l’esistenza.

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