La farsa di Boris Johnson ministro degli Esteri

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2016-07-14

Credevate che dopo l’uscita di scena di “BoJo” e di Farage la Brexit non si sarebbe fatta? Su questo vi sbagliavate di grosso. Boris Johnson al Foreign Office fa ridere, ma l’ex sindaco di Londra non dovrà condurre i negoziati per la Brexit. Ed è un peccato, visto il numero incredibile di balle che aveva raccontato e di cui bisognava chiedergli il conto

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Credevate di esservi liberati di Boris Johnson? A dire il vero anche noi, anche se temevamo sarebbe tornato fra un paio d’anni. Credevate che dopo l’uscita di scena di “BoJo” e di Farage la Brexit non si sarebbe fatta? Su questo vi sbagliavate di grosso. E la prova è che l’ex Ministro degli Interni del governo Cameron e futura Premier britannica Theresa May (una che ha delle idee mica male sui migranti) ha nominato al Foreign Office proprio Boris Johnson.
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Boris Johnson non condurrà i negoziati per la Brexit

L’uscita del Regno Unito dalla UE sta assumendo sempre di più in contorni della farsa. E siccome gli inglesi vogliono fare le cose per bene hanno deciso di affidare uno dei ruoli chiave nel negoziato all’uomo che per mesi è andato in giro a dire che un sacco di balle sui vantaggi dell’uscita dall’Unione. Ma “fortunatamente” (bisogna essere ottimisti) non è così: l’ex-sindaco di Londra non avrà il compito di condurre le trattative con la UE per la Brexit. E, ammesso e non concesso che avanzi tempo, non avrà nemmeno la possibilità di tentare di trovare un accordo con la UE per far tornare il Regno Unito nel Mercato Unico. Accordo che potrebbe significare che si dovrà rimangiare ancora molte delle promesse fatte durante la campagna referendaria. Ad esempio quelle riguardanti la libera circolazione delle persone, i contribuiti da pagare all’Unione e soprattutto la più importante: la capacità di Londra di tornare ad essere padrona del proprio destino. Perché per stare nel mercato unico gli inglesi dovranno continuare rispettare quelle direttive e quei regolamenti che limitavano la loro sovranità. Con un’aggravante: non saranno più in grado di influenzarne politicamente l’approvazione. Quasi nulla di tutto questo sarà compito diretto di Johnson: Theresa May infatti ha di fatto depotenziato il ruolo del Foreign Office: David Davis sarà il “ministro per la Brexit” mentre Liam Fox sarà alla guida del delicato ministero per il commercio internazionale. Il povero Johnson quindi non giocherà direttamente la “sua” partita, ma non c’è dubbio che durante le riunioni di gabinetto al Downing Street farà valere le sue posizioni (sempre che ne abbia). Del resto lui, dopo essersi ritirato dalla corsa per la leadership del partito conservatore aveva dichiarato apertamente il suo sostegno per Andrea Leadsom, che poco dopo si è ritirata. Di nuovo quindi il leader della campagna per la Brexit si trova in una posizione che, dal suo punto di vista, è a abbastanza favorevole: non dovrà sporcarsi direttamente le mani con le trattative per uscire dalla UE, non avrà alcuna responsabilità nell’allocazione delle risorse destinate alla UE e “promesse” al Servizio Sanitario Nazionale e gli è stata tolta anche la patata bollente dei nuovi accordi commerciali che il Regno Unito sarà costretto a negoziare con tutti i paesi con cui vorrà fare affari (UE compresa). In compenso manterrà, fino alle prossime General Elections, un ruolo politico di primissimo piano che gli consentirà di tentare la scalata alla Segreteria dei Tories e, di conseguenza, puntare alla premiership alle prossime elezioni.

Boris Johnson, l’uomo che ha inventato la scusa

Tutti concordano che tra le principali caratteristiche di un Minsitro degli Esteri ci debba per forza essere la diplomazia. Evitare di causare incidenti internazionali è del resto il modo più semplice per fare una buona politica estera, una basata su relazioni diplomatiche amichevoli e non tese. E non c’è dubbio che il fatto di essere in buoni rapporti sia un punto di partenza fondamentale quando si tratta di negoziare un accordo, soprattutto se lo si fa da una posizione di relativo svantaggio. Ed è proprio su questo aspetto che Bors Johnson potrebbe mettere i bastoni tra le ruote al suo collega Davis, il Ministro per la Brexit. Johnson – lo ricorda oggi il Guardian – non è nuovo ad uscite fuori luogo o commenti razzisti. Il che è ok se sei un Buonanno qualsiasi, ma immaginatevi di avere Borghezio alla guida della diplomazia italiana. Ecco, Boris è un po’ così. L’episodio più recente è la poesia su quello “scopa capre” di Erdogan. Ma la cosa non dovrebbe destare troppa sorpresa, la campagna per il Leave ha spesso insistito sull’invasione degli immigrati turchi che sovraccaricheranno il NHS.
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Ma Erdogan non è l’unico leader mondiale sul quale Johnson ha fatto commenti pesanti: ad aprile ha detto Barack Obama è “in parte keniota” e quindi per questo nutre rancore nei confronti del Regno Unito visto che il Kenya è un ex colonia britannica. Ma per sua fortuna Obama sarà in carica ancora per pochi mesi. Johnson deve però sperare che il prossimo Presidente sia Donald Trump, con il quale condivide molto, a partire dal caschetto platinato, perché se vincesse Hillary Clinton qualcuno gli ricorderebbe di questo suo articolo, pubblicato durante le primarie per le presidenziali del 2008, dove oltre a definirla “un incrocio tra Cherie Blair e Lady Macbeth” la descrisse così:

She’s got dyed blonde hair and pouty lips, and a steely blue stare, like a sadistic nurse in a mental hospital; and as I snap out of my trance I slap my forehead in astonishment. How can I possibly want Hillary? I mean, she represents, on the face of it, everything I came into politics to oppose: not just a general desire to raise taxes and nationalise things, but an all-round purse-lipped political correctness.

Ci sono poi gaffe minori, che rivelano la pochezza politica dell’uomo, come ad esempio quando parlò del fatto che gli abitanti della Papua Nuova Guinea sono abituati a “orge e cannibalismo”. O quando durante le Olimpiadi di Pechino ci tenne a far presente ai cinesi che il Ping Pong era stato inventato in Inghilterra. Il Financial Times propone un’interessante resoconto della sua recente missione diplomatica in Iraq che ha causato parecchi grattacapi allo staff del Foreign Office. Ma in fondo la nomina di Johnson conviene anche alla May, perché di fianco a lui chiunque sembrerà pacato, moderato e soprattutto un abile politico. Il che vale anche per la Primo Ministro, che quando era alla guida dell’Home Office ebbe la brillante idea di creare i cosiddetti “go home vans“, furgoncini che giravano per il Paese per convincere gli immigrati clandestini a uscire allo scoperto e per “aiutarli” a rimpatriare. Risultato: solo 11 migranti accettarono la generosa offerta. Quando Cameron stava rinegoziando gli accordi di permanenza del Paese nell’Unione (ricattandoci con l’arma del referendum) il Ministro degli Interni se l’era presa contro la libera circolazione dei cittadini dei paesi membri, accusandoli di pesare eccessivamente sul welfare britannico e dimenticandosi di quei pensionati inglesi che “scroccano” la sanità pubblica dei paesi europei. Durante il suo mandato Theresa May ha fatto approvare una legge che impedisce a tutti i lavoratori immigrati (regolari) che guadagnano meno di 37mila sterline all’anno di fare richiesta di permesso di soggiorno permanente nel paese. La May aveva proposto – durante la campagna per la Brexit – che il Regno Unito uscisse dalla Convenzione europea per i diritti umani (idea che ora pare non le interessi più), perché questa cosa dei diritti umani “legava le mani al Parlamento”. E non dimentichiamo che la dura posizione del Regno Unito sulla questione dei profughi e dei rifugiati siriani si deve proprio alla May, che ad una convention del partito disse chiaramente che l’unico modo per i siriani di ottenere l’aiuto del governo britannico sarebbe stato quello di rimanere nei campi profughi in Libano.

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