Il bluff di Renzi a Bruxelles

di Luca Conforti

Pubblicato il 2014-11-05

Mentre lo spettro di una stagnazione secolare diventa sempre più concreto il premier si prende tutto lo spazio di manovra che lo scenario europeo gli concede. Basterà?

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Una partita di poker in cui nessuno ha buone carte. La Commissione Ue ha aggiornato le stime sulla crescita dei singoli paesi. Viste le cifre si capisce la vittoria italiana di due settimane fa nella trattativa sui bilanci pubblici e le leggi di Stabilità 2015. La Germania in rallentamento brusco e con un serissimo problema di deflazione interna; Italia, Francia e Grecia con conti lontani dall’essere sotto controllo e il resto di Eurolandia in una stagnazione senza speranze. Abituati a non essere mai studenti modello, trovarci più o meno in linea con gli altri ( e lontano dal vero malato, la Francia) ha permesso al nostro governo di vincere con una strategia classica di negoziazione: si è presentata con una posizione simmetrica (correzione dello 0,1% sul deficit 2014) a quanto promesso (lo 0,7%) per poi concedere quanto era in grado di tagliare sin dall’inizio (lo 0,4%). Con l’ulteriore bonus di poter rivendere l’esito della trattativa come un accordo tra pari e non subire lo sfregio di vedersi la legge di Stabilità bocciata e riscritta direttamente da Bruxelles. Un’eventualità che solo in agosto era data come “molto probabile” in ambienti comunitari.

L'impatto della Legge di Stabilità 2015 (Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2014)
L’impatto della Legge di Stabilità 2015 (Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2014)

SENZA AIUTI
Rimane la scommessa solitaria di Renzi e Padoan: 80 euro, sconti Irap e sconti contributivi per i neoassunti faranno rimbalzare il Pil nazionale a sufficienza da tornare a Bruxelles come gli ideatori del risanamento senza austerità. Renzi lo ha quantificato nello 0,6% e anche questi decimali sembrano a dir poco ottimistici. Anche ammettendo che le scelte di politica economica colpiscano i punti giusti del sistema, l’effetto sulla crescita da un anno all’altro – per dirla in termini accademici: la spinta congiunturale della manovra di finanza pubblica – sarà sempre una frazione della crescita generale. Se l’Italia avesse un potenziale di crescita del 3% l’anno, lo 0,6% di contributo sarebbe credibile. Per “spostare” un’economia da 1600 miliardi servirebbe o una mobilitazione di risorse maggiore (opzione impossibile per l’alto debito ancor prima che per i vincoli europei) o in alternativa il forte traino delle altre economie sia globale che di area. Nulla di tutto questo è all’orizzonte. Ironia finale è che se davvero Renzi ottenesse il risultato di crescita promesso, dalla primavera 2015 in poi ci troveremmo a contrattare di nuovo con Bruxelles una manovra che – fiscal compact alla mano – dovrebbe contenere i tagli al deficit che sono stati rimandati nel 2014.
È innegabile che il governo abbia ottenuto più tempo per rendere più competitivo il paese proprio mentre l’Europa ha sempre meno chiaro cosa serva a tutto il continente. Tutto il progetto comunitario si sta logorando dalle radici, e si riduce l’interesse economico di imprese, lavoratori e governi a restare insieme.

A cosa serve la manovra di Renzi: le infografiche sui dati Istat


STUPIDO E PIÙ STUPIDO
Da presidente della Commissione Europea Romano Prodi definì “Stupido” il Patto di Stabilità e Crescita, (quest’ultima parte del titolo ufficiale ormai sembra definitivamente caduta). Il suo erede Fiscal compact non è certo più intelligente. Il Psc aveva funzionato bene nell’imporre la convergenza dei principali indicatori macro dei paesi della nascente eurolandia. Ma si era rivelato incapace di mantenere tale sintonia, troppe variabili non conteggiate spingevano i singoli paesi in direzioni divergenti tra loro: l’onerosità del sistema pensionistico, la vocazione all’export delle imprese, la bolletta energetica, il costo del lavoro, la pressione fiscale. I soli indicatori di deficit/pil al 3% (limite di nessun significato economico ) e di debito/pil al 60% (ignorato sin da subito) non sono rappresentativi di nulla e le crisi a ripetizione dal 2011 lo hanno dimostrato. I Greci avranno anche truccato i conti, ma il fallimento dei trattati è particolarmente evidente per Irlanda e Spagna: hanno passato a pieni voti per anni tutti gli esami europei per poi a crollare nel giro di pochi mesi. Il fiscal compact è più sofisticato nell’analisi dei conti pubblici, prevede poteri d’intervento a difesa della stabilità del mercato e si propone di neutralizzare i governi recalcitranti, ma fallisce dove hanno già fallito i trattati di Maastricht e Lisbona: non dice niente su quale sia il binario di crescita che l’Europa vuole costruire e percorrere.
Lo stato di attuazione delle riforme, il Sole 24 Ore 2 novembre 2014
Lo stato di attuazione delle riforme, il Sole 24 Ore 2 novembre 2014

FRANCIA, GERMANIA E REGNO UNITO DIVISI
Non potrebbe essere diversamente visto che i modelli di sviluppo non sono condivisi, le tre maggiori economie d’Europa hanno apertamente chiesto a Bruxelles di avere più spazio per fare delle proprie politiche nazionali. Cambiano gli accenti e le professioni di europeismo, ma la sostanza no. Di conseguenza le istituzioni europee non hanno la forza d’imporre alcunché. Gli effetti macroeconomici delle “rivoluzioni” di Renzi saranno anche minimi, ma sono passati perché l’Europa non fornisce alternative: i 300 milioni per gli investimenti del piano Juncker prevede solo una riorganizzazione di fondi già a bilancio che sarà peraltro molto difficoltosa. Renzi si può vantare di “non andare a Bruxelles per farsi dire cosa fare”, e se lo chiedesse non riceverebbe una risposta organica. Per sua fortuna i tempi della lettera di Trichet a Berlusconi sono passati per sempre. Allora si viveva nella convinzione -poi rivelatasi errata – che l’Europa avesse un solido potenziale di crescita a patto di uniformarsi ad uno standard ben definito (a ricreare questo modello devono tendere le riforme strutturali invocate ogni piè sospinto). Oggi per quanto sia evidente che i tedeschi sono molto efficienti e competitivi, nessun capo di governo vuole cedere sovranità o farsi dettare l’agenda da Berlino che a sua volta sembra meno interessata a imporsi per non dover sopportare tutto il peso dell’Unione sulle sue spalle. E lo spettro di un declino irreversibile o – per usare un termine di moda – di una “stagnazione secolare” diventa sempre più concreto. Renzi si prende tutto lo spazio di manovra che questo scenario gli concede, ma basterà?

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